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“Caffè Paradiso”. Nel nuovo libro di Massimiliano Gioni i retroscena della Biennale Arte.

 

La Biennale Arte di Venezia è attesa come l’arrivo del Messia dagli addetti ai lavori dell’arte, salvo poi diventare, nel brevissimo tempo dell’inaugurazione, la vituperata mostra che colleziona critiche e lodi. Ovviamente non sfugge a questo tragico destino neanche quella di quest’anno di cui il “Giornale dell’arte” nei giorni scorsi ha pubblicato sui social una carrellata di “in” e “out” davvero interessante, soprattutto poiché tra gli “out” sono incluse delle opere che lasciano lo spettatore perlomeno dubbioso.  Non siamo del tutto sicuri quindi  che l’intento di Adriano Pedrosa, direttore della Biennale 2024, sia stato completamente compreso dal pubblico, malgrado la sua  preparazione  sia avvenuta  con grande sensibilità, cercando di introdurre e legare tra loro nello stesso concept  parole come stranieri e queer.

“Caffè Paradiso” è il nome del bar che si trova all’ingresso dei Giardini della Biennale e che accoglie tutti gli incontri importanti tra artisti, curatori e organizzatori, sia prima del varo della kermesse veneziana, sia durante il suo svolgimento.  Ed è proprio da questo luogo mitico, che prende spunto la storia narrata da Massimiliano Gioni nel suo ultimo libro. Dedicato a Germano Celant, con cui Gioni aveva scambiato idee sul progetto, prima della scomparsa del famoso curatore durante l’epidemia Covid del 2020, esso raccoglie interessanti interviste di curatori come Jean Clair, Daniel Birnbaum, Cecilia Alemani, Harald Szeemann e Adriano Pedrosa.

L’aspetto più significativo messo in luce  dal libro, che spesso sfugge al grande pubblico, attratto maggiormente dal titolo della Biennale  o dalla presenza di artisti a volte sconosciuti ai più, è il fatto che questo Leviatano dalle proporzioni enormi venga organizzato sempre in pochissimo tempo, con stanziamenti risicati che costringono gli organizzatori a doppi salti mortali con avvitamento per concludere in tempo e bene i loro progetti. Ciò può comportare quindi, come accadde allo stesso Gioni durante la Biennale di cui era direttore, di dover curare personalmente  la pulizia dei luoghi, in quanto il suo padiglione temporaneo, nato da un’idea di Francesco Bonami, non essendo nè nazionale,  nè facente parte di quello centrale, essendo quindi “extraterritoriale”, non era stato pulito da nessuno. Certo che a fronte di tali disagi il direttore può anche avvalersi di privilegi notevoli come quello di avere un motoscafo a sua disposizione per spostarsi liberamente da un luogo all’altro, oppure, può disporre di un benefit ancora più ambito come quello di poter vagare con la bicicletta, prima dell’apertura della mostra al pubblico, tra i vari padiglioni, riproducendo nel nostro immaginario una sorta di veduta alternativa dei luoghi e delle opere, come quella proposta da Nanni Moretti in “Caro Diario” per le vie di Roma. Che invidia!

Elemento ancora più rilevante del libro è quello di analizzare le motivazioni che hanno portato i vari direttori a scegliere i loro titoli e le connessioni artistiche ed intellettuali che si potevano quindi scorgere al loro interno. Si scoprono così degli aspetti peculiari di ciascuna edizione, che spesso neanche le didascaliche summe diffuse dalla stampa  sono riuscite ad evidenziare e  che invece rappresentano una fonte di approfondimento corposa.

Dalle considerazioni di Jean Clair, ad esempio, che risponde seccamente alle domande di Gioni, si evince come la sua Biennale, che prendeva spunto dal tema “ alterità/ identità”, avesse un background profondo già intessuto nella mostra epica “Les réalismes” che Clair aveva curato per il Centre Pompidou e di cui,  in occasione della manifestazione veneziana, era riuscito ad ampliare la portata, indagando ambiti inesplorati nella mostra precedente. Clair, studioso di fama mondiale, non ha mai nascosto la sua repulsione nei confronti del rapporto tra mercato e sistema dell’arte, e per questo suo orientamento siamo portati ad empatizzare con lui  a priori,   per quanto egli rappresenti solo  uno dei tanti  curatori citati da Gioni ad aver accresciuto la portata culturale della Biennale. Certamente non il solo. Herman Szeemann ad esempio, con il suo approdo alla kermesse veneziana, introdusse il ruolo di curatore indipendente, colui che attraverso il proprio lavoro poteva esprimere il desiderio di una società nuova,  una sorta di curatore engagé, libero dai condizionamenti del mercato. E fu proprio nella sua Biennale che Tino Sehgal eseguì una performance in cui, dopo aver ballato nudo, urinò sul pavimento. Quale libertà di espressione maggiore poteva immaginarsi in un ambito artistico globalizzato, come quello da egli stesso intuito e messo in pratica già dal 1999?!

Massimiliano Gioni e  Cecilia Alemani, una delle quattro direttrici  della Biennale in centoventisette  anni di storia, legati nel lavoro e nella vita, sono  usciti entrambi dalla scuola curatoriale di Francesco Bonami, l’enfant terrible dell’arte internazionale e predittivo interprete  delle tendenze innovative dell’arte. La Biennale di Bonami dal titolo “Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore”, introduceva concetti e strutture nuove. All’Arsenale era stata progettata una mostra dal titolo “Clandestini” per descrivere la metafora degli artisti i cui lavori dovevano essere intesi al di là di qualunque identità geografica. Il titolo ha un’ evidente connessione  con “Stranieri ovunque” ( 2024) il motto “disturbante”, come lo descrive Pedrosa stesso nella sua intervista,  che pone invece l’accento sulla condanna  al razzismo e alla xenofobia. 

 

La Biennale di Bonami  evidenzia in maniera chiarissima quanto sia stato proiettato al futuro lo sguardo del suo direttore, munifico in tutto tanto da pensare di finanziare di tasca propria un evento collaterale alla Biennale di quell’anno (1995), salvo poi essere sponsorizzato in fase terminale del progetto da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, con la quale iniziò una collaborazione ultraventennale. Nonostante l’apertura mentale di Bonami, il tema politico toccato in questa kermesse aveva origini precedenti . Già nel 1993, la mostra di  Achille Bonito Oliva aveva  fatto entrare la politica a gamba tesa nell’arte. Bonito Oliva aveva infatti tolto un padiglione alla Serbia di Milosevic, ed anche se il connotato  di  questa azione espoliativa  rientrava nel modo di porsi del suo ideatore, un po’ sui generis  visto che i padiglioni erano affidati ai singoli stati, la sua proposta venne accettata ugualmente e nello stesso padiglione venne organizzato una mostra di autori vari. Bonito Oliva si spese inoltre affinché durante  il suo mandato fosse conferito un padiglione anche alla Corea del Sud, cosa che avvenne nel 1995, anno della direzione Bonami.

“Il palazzo enciclopedico” era il nome dato da Gioni alla sua Biennale, e di tale titolo se ne intravede l’eredità in questo libro. Caffè Paradiso è scritto con umiltà e competenza, ma soprattutto ha il merito assoluto, di illustrare tutto il dietro le quinte di una delle mostre d’arte più attese, sviscerando le riflessioni dei protagonisti ed arricchendo il bagaglio culturale dei neofiti come degli addetti ai lavori. Leggendo il libro aneddoti e riferimenti a mostre storiche o testi cult in ambito artistico, di notevole portata culturale, si susseguono, e gli stimoli agli approfondimenti, anche dopo la lettura del libro, rimangono un elemento di grande qualità del testo ed imprescindibile suggerimento di esplorazione individuale.

Caffè Paradiso – Massimiliano Gioni – Johan & Levi – Libro Johan & Levi Editore

 

Caffè Paradiso: nel nuovo libro di Massimiliano Gioni i retroscena della Biennale Arte

 

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Le “Macchine inutili” di Yuko Mohri

Pavilion of JAPAN: Yuko Mohri, “Compose”, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, photo by: Matteo de Mayda, courtesy: La Biennale di Venezia

Le “Macchine inutili” di Yuko Mohri

Viaggio nell’uso alternativo di oggetti inaspettati del Padiglione giapponese della Biennale arte 2024

 

La Biennale 2024 intitolata “Stranieri Ovunque”, dal motto impresso nelle sculture al neon dell’artista Claire Fontaine, disseminate nel Padiglione Centrale, è aperta ormai da alcuni giorni. I mezzi di informazione sono inondati dal pensiero di ciascun addetto ai lavori o semplice amante dell’arte, relativo al valore delle opere in mostra, all’opportunità di esporle in quella sede, finanche alle valutazioni sulle performance e video che hanno supportato i vari padiglioni. In questo ambito così multiforme ed eterogeneo, ci siamo soffermati nell’analisi del Padiglione Giapponese, rappresentato quest’anno dall’artista Yuko Mohri, le cui installazioni ricomprese nel titolo Moré Moré , sono state affidate alla disposizione in loco dalla curatrice coreana Sook-Kyung Lee. La Mohri non è una presenza occasionale in Italia, tanto che già nel 2022 fu una degli artisti partecipanti al “Japan . Body_ Perform_Live”  presso il Pac di Milano, in cui l’installazione site specific Moré Moré occupava tutto il piano prospicente l’immensa vetrata del padiglione, attribuendo ai giochi d’acqua ed ai suoni dell’installazione, una profondità ed una luminosità traslucente.

Nel padiglione della Biennale 2024 l’opera della Mohri è rappresentata da una versione più articolata di quella già vista in precedenza e dall’omonimo titolo, il cui allestimento, così come l’aggiunta di elementi originali che la compongono, ne amplificano notevolmente il risultato finale.

E’ la prima volta che una curatrice straniera  viene invitata ad occuparsi del padiglione giapponese, ma la scelta non poteva non cadere su Sook-Kyung Lee sia per il fatto che quest’ultima aveva già curato l’attività espositiva degli artisti coreani nella Biennale del 2015, sia per il fatto che la sua collaborazione con la Mohri era osmoticamente prevedibile per l’esperienza della Biennale. Non solo  il padiglione Giapponese e quello Coreano sono infatti  adiacenti uno all’altro, ma è stata proprio Sook-Kyung Lee a presentare Koo Jeong, l’artista coreano attualmente in mostra presso il Padiglione della Corea, a Yuko Mohri, cogliendo fin dall’inizio delle sinergie alchemiche tra le opere dei due artisti.

Le opere della Mohri elaborano il concetto primario di “oggetto” con un’accezione molto simile a quella utilizzata dai surrealisti e dadaisti. Attraverso il suo operato artigianale, ella imprime un cambiamento di funzione alle sue installazioni, arrivando a collocarle, con un ruolo completamente differente, nel tempo e nello spazio. L’opera di Yuko Mohri è particolarmente proiettata a mostrare quale sia la connessione imprevedibile tra suono, rumore e movimento. I tre elementi vengono prodotti artigianalmente dall’artista stessa, utilizzando oggetti di riuso quotidiano come ombrelli, contenitori in plastica, tubi o mobili in legno, cercando di indagare lo spazio occupato dagli stessi, anche in relazione allo spostamento che il movimento imprime loro. In questa trasformazione quindi, l’oggetto acquisisce un’ambivalenza di funzione, sfuggendo all’oggettivazione da esso rappresentata nell’accezione diffusa, ed acquisendo invece una funzione differente del tutto strumentale a raggiungere la finalità perseguita dall’artista. In questo senso, l’uso di ombrelli rovesciati che convogliano flussi di acqua prodotti dal macchinario principe dell’installazione stessa,  portano, alla fine del passaggio  dell’acqua da essi convogliati, a relativizzare il ruolo fisico dell’ombrello e a renderlo invece una sorta di amplificatore del suono che si produce alla fine del percorso. Nella stessa direzione  può essere interpretata anche una parte dell’installazione (Decomposition)  in cui alcuni elettrodi collegati tra loro, vengono infilati nella  frutta di stagione esposa, e man mano che la loro decomposizione avanza,  l’umidità sprigionata dagli alimenti, produce impulsi elettrici di entità differente, tramutandosi in suoni e colori più o meno tenui, dovuti al processo di deperimento del cibo utilizzato. Tutta l’opera della Mohri è ispirata agli espedienti utilizzati nella metropolitana di Tokyo per sconfiggere le perdite di acqua, attraverso il riciclaggio di oggetti comuni, ma in quest’ utilizzo alternativo dei  prodotti si inserisce anche una critica alla società del consumo unitamente all’invito alla conservazione, anche in un’ottica fortemente protettiva dell’ambiente in cui viviamo. L’arte ricombinatoria degli oggetti  utilizzata da Yuko Mohri all’interno del padiglione Giapponese della Biennale ci ricorda l’opera acutissima di Bruno Munari.  Quel sistema architettonicamente perfetto incarnato ad esempio da “ La macchina aritmica” del 1951 è l’esatta concezione di come una forma, utilizzata in modo creativo nello spazio, possa conferire una percezione completamente differente allo spettatore e perciò di come, i dogmi o preconcetti di qualunque tipo, siano sovvertibili solo guardando la questione da un punto di vista differente.

 

Biennale di Venezia  – Arte

Padiglione Giappone

Moré Moré

Yuko Mohri

a cura di Sook-Kyung Lee 

Giardini

dal 20/4/2024 al 30/9/2024

Pubblicato su Juliet Art Magazine

Le “Macchine inutili” di Yuko Mohri al Padiglione giapponese della Biennale Arte 2024: un viaggio nell’uso alternativo di oggetti inaspettati

 

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BOTTO&BRUNO

ORIZZONTE PERDUTO Testi di Carola Allemandi

Simondi Gallery

Orizzonte perduto

“È da una crisi dello sguardo che la ricerca più recente degli artisti Botto&Bruno ha iniziato a diramarsi, dal non sentirlo più adeguato per raccontare la contemporaneità: per dire il proprio mondo, infatti, i soli elementi che lo formano possono risultare insufficienti, rendendo obbligatorio volgersi altrove, addirittura indietro.
Da qui la spinta a interrogare gli artisti della tradizione, quasi fossero degli avi familiari, per comprendere il messaggio che si cela nel paesaggio odierno: il wallpaper che racchiude l’Orizzonte perduto di Botto&Bruno (il titolo è tratto dall’omonimo film di Frank Capra del 1937), è una veduta derivata dal collage di paesaggi ormai scomparsi, e già a loro volta visti e interpretati da altri sguardi. Sono i dettagli che si trovano sullo sfondo delle opere dei maestri europei della visione – dai dipinti di Nicolas Poussin, Andrea del Sarto, Giovanni Bellini, Piero di Cosimo, alle incisioni di Piranesi – e portati ora in primo piano a raccontare un mondo che ancora ci parla.
Col filtro del proprio sguardo contemporaneo, attraverso il collage Botto&Bruno compongono un nuovo oggi in cui doversi orientare, finalmente lontano dai lasciti di una civiltà ridotta a particolari infinitesimali. Il contrasto-dialogo fra centro e periferia urbana, tema cardine della ricerca del duo artistico torinese, lascia spazio a un discorso in cui l’urbanità tutta risulta privata di un ruolo effettivo, mentre la durezza naturale della roccia e del paesaggio non addomesticato prende possesso quasi dell’intero panorama, lasciando l’uomo senza orientamento, né punti fermi in cui poter trovare l’accoglienza del mondo che ha lasciato dietro di sé”

Carola Allemandi

https://simondi.gallery/it/exhibits/137-orizzonte-perduto

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Yayoi Kusama in mostra a Bergamo

Fireflies on the Water è l’unica installazione dalle dimensioni di una stanza pensata per essere vista in solitudine, una persona alla volta, per 1 solo minuto. 

L’opera consiste in una stanza rivestita di specchi su tutti i lati; al centro c’è una pozza d’acqua, su cui sporge una piattaforma panoramica simile a un molo e 150 piccole luci appese al soffitto a mò di lucciole. 

Un po’ poco per un’artista come Yayoi Kusama.

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I colori intensi dei sentimenti nell’arte astratta di Mark Rothko

Talvolta gli artisti, durante il processo di creazione dell’opera  d’arte, vengono ispirati da intuizioni intelligibili mentre in altri casi i quadri rappresentano solo quello che sembrano. Nel caso delle opere di Mark Rothko, in qualunque epoca le si prenda in esame, esse celano sempre un significato profondo, benché l’autore si sia sottratto a qualunque interpretazione nascosta. “Egli voleva semplicemente che il visitatore guardasse, che  fosse presente, di fronte all’opera”, così descrive il sentire di Mark Rothko, suo figlio Christopher, psicologo e scrittore, relativamente allo stato d’animo del padre durante il processo creativo. Una fase artistica lunga e combattuta che viene delineata a tutto tondo dalla straordinaria mostra curata da Suzanne Pagé, attualmente  presente alla Fondation Louis Vuitton di Parigi fino al 2 aprile 2024,  dal minimale titolo “Mark Rothko”. Le opere dell’artista, collocabili temporalmente nella fase iniziale della sua carriera,  erano acquerelli dalle figure allungate, tenui e sbiaditi che tanto richiamavano alla mente le sculture di Giacometti. L’evidente  connubio tra le forme dei due artisti viene sottolineato anche nel percorso espositivo, esponendo le opere di Giacometti, che  Rothko stesso aveva immaginato di presentare, nell’ambito di un allestimento che avrebbe dovuto effettuare per il nuovo padiglione parigino dell’Unesco. Le statue dialogano con i quadri più scuri e tetri dell’opera dell’artista, quelli che una sommaria ricostruzione biografica riconduce ai periodi più bui della vita di Rothko, ma che a ben guardare rappresentano anche, a prescindere dallo stato d’animo combattuto e tumultuoso del pittore in quel periodo, l’evoluzione narrativa della ricerca da egli compiuta fin dall’inizio. In definitiva Rothko fu sempre un combattente ed un contestatore, un uomo dall’intelligenza vivace dimostrata fin dai suoi studi a Yale, capace di rinunciare ad una carriera precostituita e di cercare la sua strada. Un pittore tormentato che non si nascondeva e affrontava le ingiustizie di cui era vittima, facendo sentire la sua voce. Così avvenne quando decise di lasciare il sindacato, di cui faceva attivamente parte, per aderire al movimento No Blackout Art, secondo il quale la guerra al Nazismo doveva essere combattuta da ciascuno, con l’obbligo sociale di lottare per la propria libertà. Risulta ineludibile in questa fase non mettere in evidenza quanto il fatto che egli fosse stato figlio di immigrati russi di origini ebree, lo abbia sempre e per tutta la vita legato alla Shoah, quanto tutte le riflessioni che egli possa aver compiuto in quell’America, così apparentemente ospitale e piena di possibilità per gli artisti anche stranieri, in realtà stimolavano una resistenza, neanche troppo celata, alle correnti pittoriche più eteree e lontane dai suoi riferimenti culturali. Proprio in quell’America che gli aveva permesso di iniziare la sua carriera partecipando  al progetto Federal Art Project con il quale si sovvenzionavano in pieno New Deal gli artisti emergenti, permettendo loro di sperimentare la loro arte innovativa, l’antisemitismo dilagava e per evitare di essere etichettato come parte di quella cultura ebraica invisa in quel momento, Mark Rothkovich decise di cambiare il proprio cognome in  Rothko, come moltissimi immigrati della sua generazione. La ribellione fu pertanto ostacolata dalla voglia di affermazione ed il fatto di essere entrato a far parte de “Gli irascibili” in quella memorabile foto in cui appare con lo sguardo sghembo e laterale rispetto all’obiettivo, guardando di traverso la macchina fotografica, denota come si sentisse marginale in quel gruppo .   Nella prima parte della sua ricerca artistica,  i suoi riferimenti pittorici furono rivolti ai Surrealisti quali Ernst, De Chirico, Mirò, ispirando le Subway Series, una serie di quadri che prendendo spunto dalla metropolitana di New York, delineavano  figure sottili e volti inquietanti. L’evoluzione successiva e fisiologica, figlia del cambiamento storico,  del clima di perdita di valori e del dilagare della guerra, lo fa aderire ai  Myth Makers una corrente pittorica ispirata dai miti greci ed alla cultura primitiva la cui partecipazione condivide con personaggi come Pollock o Gottlieb. Il riferimento alla pittura primitiva, soprattutto nella modalità di realizzazione dei colori, rimarrà la cifra di Rothko per tutta la sua carriera. L’utilizzo di pigmenti secchi a cui mescolava un gran numero di additivi, alcuni dei quali  restano ancora oscuri, il ripassare i colori dopo la fase dell’asciugatura  per attribuire lucentezza e spessore alla texture, resta il modus operandi caratteristico dell’artista. Nella parte finale della sua carriera i Multiformi, quadri suddivisi in due o tre colori intensi, a volte intervallati da colori neutri, che spezzano la nuance dominante, totalizzano i suoi lavori. L’uso delle tonalità cambia di netto, virando dai colori caldi come l’arancio e il rosso, al blu intenso, nero e poco bianco. 

Chi l’ha conosciuto profondamente, come il figlio Christopher,  ci esorta a stare lontano da interpretazioni cervellotiche inerenti la modalità di pittura ed il dissidio interiore che l’artista viveva fino al culmine tragico del suo suicidio. L’unico scopo di Rothko era quello di permettere allo spettatore   di ripercorrere un’esperienza, che egli stesso provava nel dipingere, comunicando il suo stato d’animo attraverso i colori. 

Guardando i suoi quadri, seppur influenzati ugualmente da quello che è stato il suo percorso umano e professionale,  non si può non ammettere che egli abbia realizzato il suo intento.

 

Mark Rothko

dal 18 Ottobre 2023 al 2 Aprile 2024

Fondation Louis Vuitton Paris

Curatori

Suzanne Pagé et Christopher Rothko con François Michaud e
Ludovic Delalande, Claudia Buizza, Magdalena Gemra, Cordélia de Brosses.

Pubblicato il 09/2/2024 qui:

I colori intensi dei sentimenti umani nell’arte astratta di Mark Rothko

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Le Superforme di Thomas Bayrle

 

Nel 1970 Thomas Bayrle, artista tedesco di lunghissima fama, la cui opera si è sempre ispirata a concetti fondanti, seppur critici, dei processi produttivi consumistici, diede alla luce l’opera American Dream ( Chrysler), un grande wallpaper che riproduce ossessivamente il logo pentastellato della celebre marca, trasformandolo in icona del progresso capitalista e della produzione industriale. L’artista era però ignaro del fatto che anni dopo (2014) il gruppo Fiat avrebbe acquisito la Chrysler, unificando quindi in un tutt’uno i simboli capitalistici ed automobilistici oggetto di tutta la sua ricerca, ed era altrettanto inconsapevole che questa immaginifica opera, smaccatamente Pop Art, avrebbe aperto la mostra a lui dedicata proprio al Lingotto, antica sede della Fiat ed ora della Pinacoteca Agnelli. 

Articolo completo qui:

Le infinite strade del consumismo: le Superforme di Thomas Bayrle tra artigianalità e Pop Art

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Laurie Anderson

 

Definire Laurie Anderson con un solo aggettivo risulta fortemente riduttivo ed infatti la mostra che celebra la sua attività ultra trentennale al Modena Museet di Stoccolma nel tentativo ben riuscito, nonostante l’opera in questione sia notevole.  Avanguardista performer in ambito artistico e musicale la Anderson ha collaborato con personaggi della caratura di Sol LeWitt, Gordon Matta-Clark, John Cage, Brian Eno, William Borroughs sposando Lou Reed, di cui ne è stata la compagna fino alla fine della sua vita. La sua opera spazia dalle performance che uniscono il lato artistico a quello musicale, ad installazioni che dialogano con la parola per sensibilizzare il pubblico su concetti particolarmente delicati come i diritti umani o l’inquinamento. La sua attività artistica risulta all’avanguardia e predittiva essendo stata in grado di precorrere i tempi ed utilizzare una tecnologia ante litteram, oggi molto diffusa con applicazioni come Chat gpt, ma che nel passato rappresentavano la vera fantascienza.